di Roberto Todisco
For Sama è un film di cui è difficile parlare, i parametri e le categorie con cui siamo abituati a descrivere le nostre visioni filmiche appaiono di colpo inadeguate. Mi resta qualche aggettivo. Sublime, insopportabile, necessario, incantevole, atroce.
For Sama è la lunga video lettera che la giornalista e filmmaker Waad Al-Khateab invia a sua figlia, per spiegarle le ragioni delle sue azioni, del suo restare, e per raccontarle il suo primo anno di vita e i tre anni che hanno preceduto la sua venuta al mondo. Tutto inizia nel 2013, con la rivolta degli studenti dell’università di Aleppo contro il regime di Bashar al Assad. La fine della storia è nota: dopo 6 mesi di assedio e di bombardamenti le forze del regime entrano in una città distrutta e costringono i pochi resistenti superstiti all’esilio. Waad è stata una delle voci dall’assedio. Con i suoi reportage per il canale britannico Channel 4 ha scosso l’opinione pubblica internazionale. Un’emozione che tuttavia non ha provocato nessun intervento e non ha impedito che in Siria si consumasse la prima immane tragedia del nuovo secolo. Da quei video, dopo il lavoro di editing fatto insieme al regista Edward Watts, è nato un film potente e straziante (altri due aggettivi).
L’incessante guardare di Waad è una testimonianza inestimabile, un atto di coraggio e di amore. Ma è anche un’opera d’arte, una delle più preziose del nostro tempo, perché solo le grandi opere d’arte riescono a dare una (bellissima) forma a una materia immensa e lancinante. A suo modo Waad compie la stessa opera del medico Hamza, nell’ultimo ospedale di Aleppo Est: pulisce, cuce, ordina, fascia. Aggiorna il registro dei vivi e dei morti. Entrambi fanno in modo che la vita non si trasformi in brandelli insanguinati senza senso, lui con le mani e con la medicina, lei con le immagini e con il racconto. Già, perché se la cosa che immediatamente colpisce della visione di For Sama sono le immagini (a volte colpiscono così tanto che si è tentati di distogliere lo sguardo), la costruzione del racconto, con i suoi avanti e indietro e con il gusto della suspense, dà al film un vero respiro cinematografico. In alcuni momenti bisogna compiere uno sforzo per ricordarsi che si sta assistendo a un documentario, che quello che vediamo è avvenuto davvero, tanto è tutto magnificamente “cinema”. E questo naturalmente contribuisce al totale rapimento della visione. Siamo anche noi lì, ad Aleppo, con gli aerei da guerra russi che ci ronzano sulla testa come zanzare e il sangue che si mischia alla polvere, dappertutto.
Il grande critico cinematografico André Bazin, il padre nobile della Nouvelle Vague, di cui For Sama sembra condividere un certo gusto estetico, chiedeva ai suoi lettori se uscendo dalla visione di un film neorealista italiano non si sentissero migliori, se non avessero voglia di “cambiare l’ordine delle cose, ma di preferenza persuadendo gli uomini, almeno quelli che possono esserlo, e che solo l’accecamento e il pregiudizio o la sfortuna hanno condotto a fare del male ai loro simili”. Ebbene, uscendo dalla visione di For Sama si prova esattamente la stessa cosa, ma anche di più. Si prova gratitudine, gratitudine per il fatto di vivere in un paese in pace, gratitudine perché dal cielo cade una pioggia inattesa, invece delle bombe, gratitudine per i motorini, per il vociare della folla, per le studentesse universitarie nei loro cappotti cammello. Voglia di essere migliori e gratitudine, è questo che, al di là della sacrosanta informazione sulla tragedia di Aleppo, lascia addosso questo film.
Mi sono accorto che, dopo aver detto quanto fosse difficile parlare di questo film, ho fatto esattamente il contrario. Forse queste parole sono solo l’equivalente delle lacrime che non sono riuscito a versare durante la visione. “Qui non si piange”, così Hamza rimprovera Waad, mentre sta cercando di salvare un bambino. Ora però l’assedio è finito, e la guerra è persa, ma Waad, Hamza e la piccola Sama sono salvi. Possiamo finalmente piangere insieme a loro.